sabato 20 novembre 2021

Salita allo Spiz Gallina, il piccolo Cervino delle Dolomiti

Una ravanata di Enrico & Pippo.

Quello che segue è il racconto della salita allo Spiz Gallina, una cima che non necessita di presentazioni per chi frequenta le Prealpi Venete oltre la Piave. Sfido chiunque anche solo di passaggio a non aver mai dato un’occhiata, se pur distratta, a questa cima minore, che nel suo piccolo sembra dominare la valle sottostante. Qualcuno lo chiama il piccolo Cervino delle Dolomiti, a fare da contraltare al Cimon della Pala. Certo chi lo ha ribattezzato così deve avere uno spiccato senso dello humor, ma quest’appellativo tutto sommato ci è piaciuto fino ad adottarlo.


Esistono diverse relazioni in giro per l’internet, ma a quanto pare, confrontandole, nessuna descrive lo stesso percorso. Questo principalmente per due ragioni molto ovvie: la prima è che la via non è segnata, salvo qualche raro ometto, la seconda è che, evidentemente, non esiste una sola via normale.

Questa dunque è la nostra relazione, sperando di dare indicazioni utili non tanto ad individuare il cammino più facile, quanto ad evitare di perdere il sottile filo di Arianna che conduce alla "agognata" vetta.

Il 20 novembre 2021, ci diamo appuntamento alla macchina sul presto con destinazione Val Gallina, che già conoscevamo per averla sbirciata dalla bella ciclabile che da Soverzene conduce a Longarone, sul versante sinistro del fiume caro alla patria. Il tempo è buono e la stagione inoltrata sembra propizia alla salita. Usciamo dall'autostrada ed eccolo lì, lo Spiz, con le pendici boscose ancora nell’ombra e il sole che illumina la pala alta.

Parcheggiamo l’auto sul piazzale a destra della diga, ci cambiamo e prepariamo gli zaini spartendoci l’attrezzatura alpinistica, raccomandata per affrontare quantomeno i passaggi più delicati. Fa molto freddo e ci copriamo con tutto quello che abbiamo al seguito. Attraversata la diga e giunti sull’altro versante del bacino artificiale, il sole fa capolino da dietro il Col Nudo per illuminare il versante di salita. Imbocchiamo il sentiero che si stacca a sinistra (faccia a monte), poco prima di un canalino secco che termina sulla sponda del lago.



Dopo aver guadagnato circa un centinaio di metri, lasciamo il sentiero che volge a sinistra per prendere una netta traccia orizzontale a destra (freccia incisa su corteccia di albero, vedi foto) e che sembra  poter condurre alla forcella. Il sentiero, non numerato, ma segnalato da sporadiche frecce rosse, si fa presto ripido, serpentinando di qua e di là del colatoio secco di cui si accennava poc’anzi. L’alto strato di foglie cadute dagli alberi non rende facile la progressione, complice il fatto che è da un po’ che siamo fermi con le gambe. Prendiamo quota ognuno col suo passo e, dopo aver costeggiato le pareti che scendono dagli avancorpi del Toc, giungiamo in forcella (1.10 circa dalla macchina).




Troviamo una bella fontana con acqua corrente e sostiamo sulla panchina adiacente. Il Casot è tenuto davvero bene, c’è persino un piano cottura con bombola a gas e luce elettrica alimentata da un piccolo pannello fotovoltaico. Chapeu ai bravi manutentori della sezione del CAI di Conegliano.



Consultiamo il PDF della guida salvato nel telefono e prendiamo l'evidente sentiero che dal Casot taglia il bosco a sinistra. Procediamo aggirando la base dello Spiz in senso orario. Dopo poco riveniamo un sottile cavo metallico teso fra gli alberi, ad agevolare il passaggio su un paio di tratti poco esposti, di cui si fa menzione nella relazione di salita. Il sentiero volta repentinamente a destra rimontando una specie di cresta boscosa, che si percorre tutta senza possibilità di errore, fino a una parete gradonata. Da qui, un breve passaggio attrezzato con del fil di ferro permette di raggiungere lo stretto forcellino incassato tra la paretina di roccia e un pulpito ornato di loppe rinsecchite. Siamo all’attacco della via.




Indossiamo i caschetti e ci leghiamo in cordata per superare il passaggio attrezzato da una vecchia catena, gradato III°, piazzando qualche cordino intorno ai primi mughi. Dopo questo primo passaggio di roccia e terra, il sentierino prosegue dritto per una nuova cresta erbosa un po' esposta, a sinistra della quale si apre un nuovo versante boscoso piuttosto ripido. Si raggiunge così una nuova parete a destra della quale (faccia a monte) si apre il canalone principale che scende dalla vetta. E fin qui tutto chiaro.



La relazione scaricata da internet recita che sulla parete dovremmo incappare in un paio di spit con cordino. Noi però non troviamo nulla, per cui, indecisi sul da farsi, proviamo ad attaccare il suddetto canalone proteggendoci dove possibile. Gli alberelli sono piuttosto esili e malandati per cui - non senza qualche improperio – torniamo sui nostri passi e proviamo ad esplorare il declivio ulteriormente a destra. Qui ci sembra di scorgere una qualche traccia nelle foglie secche, sempre abbondanti, intuizione che viene confermata dal rinvenimento di un grosso ometto. Urrà! Certo, l’ometto c’è, ma non se ne capisce l’intenzione.

Superato lo stesso, proseguiamo ancora a destra attraverso gli alberi fino ad individuare un ulteriore canale erboso che risale verticalmente. Proseguiamo quindi a zig-zag, mettendo qualche cordino attorno a dei grossi abeti sul limitare dei versanti opposti, fino ad arrivare ad un gradino erboso che richiede di essere superato su loppe esposte e senza appigli per le mani, se non terra e rocce malsicure. Superato lo stesso – con una certa apprensione –, risaliamo la ripida erta finale aggrappandoci letteralmente ai ciuffi d’erba fino a raggiungere la base di un roccione, leggermente aggettante. A questo punto ci è chiaro che questa non è la via di salita più facile, per cui discutiamo un po’ tra noi sul da farsi, valutando anche di calarci in doppia e rinunciare.


 
Decisamente scoraggiati, facciamo un ultimo tentativo risalendo una specie di cengia a sinistra del roccione di sosta, fino a raggiungere un più largo canale dove individuiamo... degli ometti! Con fiducia ritrovata, proseguiamo ora in quota dove la traccia si fa obbligata, prima con una curva netta a destra tra due grosse rocce, poi con un passaggio tra i mughi, quindi per un gradino di roccette dove guadagnamo l’esposto traverso finale, di cui avevamo letto in guida.



La cima è ampia anche se accidentata, disseminata di mughi e rocce. Lo sguardo spazia dalla pianura avvolta dalla nebbia fino all’Antelao. Sembra di poter toccare Pelmo e Rocchette con le mani, ma la vista sul vicino col Nudo e, dall’altro lato, sul Pelf non è da meno. Ce ne stiamo a goderci del bel sole che scalda il viso, riflettendo tra noi su quant’è bello poter restare qui, ancora per un po’. Che senso ha correre in montagna quando è solo con lentezza che si può davvero godere di ogni singola pietra o muschio che il passo incontra? Non è forse con lentezza che si assapora a pieno l’aroma di un buon vino? Così il profumo del baranci scaldati al sole, dell’umidità dei recessi del bosco, del profumo acre della roccia ruvida sotto le mani? E non è forse tutto questo e l’attesa poi di tornare alla montagna, che rende più sopportabile la vita di tutti i giorni?





Pensiamo a queste e molte altre cose, quando ci rimettiamo in piedi, sforzandoci di non perdere la concentrazione per la discesa, che si prospetta non scevra delle sue piccole insidie. La prima è scendere sulla cengia, che è davvero esposta, sulla quale ci muoviamo con estrema cautela, superata la quale il percorso si fa più facile. Una volta raggiunto nuovamente il largo canale erboso, ritroviamo gli sparsi ometti di pietra che decidiamo di seguire in discesa e che ci portano, per gradoni, alla base della parete senza nemmeno il bisogno di legarci. Da lì il percorso a ritroso è ben impresso nella nostra mappa mentale. Per ovviare alla paretina finale attrezzata con la catena, attrezziamo una doppia attorno ad un grosso tronco, che ci deposita al punto di partenza.

La discesa alla diga si rivela un po’ faticosa, le ginocchia sono state messe alla prova, per cui quando torniamo alla macchina siamo belli cucinati. Ma con due sorrisi sul viso che ce li ricordiamo ancora. Dedichiamo ancora qualche ultimo scatto al bacino artificiale della Val Gallina, che ci regala una meravigliosa enrosadira riflessa sull’acqua, mentre velocemente si fa sera.

Pensieri finali sulla nostra piccola avventura.

Il percorso
Abbiamo omesso che, appena poco dopo aver lasciato il Casot, abbiamo conosciuto due ragazzi, decisamente più giovani di noi, che scendevano di buon passo lungo il sentiero. Inutile dire che eravamo piuttosto sorpresi di questo incontro inatteso. Abbiamo chiesto loro com’era la salita e se era stato difficile trovare la via. Ci hanno risposto che non si erano portati appresso nulla per fare sicura e che avevano seguito una traccia GPS, senza la quale si sarebbero probabilmente persi.

Difficoltà
Sul libro di vetta troviamo più firme di quante ce ne aspettassimo, sarà l’effetto dei sociali o dei blog come questo? L’itinerario non presenta difficoltà che superano il II-III° grado, ma l’orientamento non sempre facile, l’ambiente aspro e l’esposizione di alcuni tratti rende questa salita nel complesso avventurosa. Se dovessimo tornare sceglieremo oggi la via più facile, senza l’ausilio della corda, risparmiandoci un bel po’ di peso sulle spalle. Come da manuale, è necessario in ogni caso avere passo fermo e un po’ di buon senso, nulla più.

Ospiti indesiderati
Ovunque si legge della presenta di amici indesiderati che infestano, letteralmente, quei boschi. Qualche preoccupazione per le zecche c’è stata, sopratutto quando eravamo aggrappati alle erbe, ma alla conta non se ne è presentata nemmeno una. Grazie anche al provvidenziale calzino, di rito sopra le braghe. Bene dunque scegliere le stagioni più fredde.

Le vie di salita
Ci sono più vie di salita alla cima, le guide non sono tutte concordi nel descrivere la medesima come detto sopra, ma quello che le accomuna è che sono tutte piuttosto vaghe. Ripensandoci ora, la via più ovvia è sempre quella più semplice, ma resta difficile individuarla dal basso. E ci auguriamo resti così, sperando ancora una volta che non venga rovinata da troppi ometti, segni o chissà che. Siamo venuti qui per assaporare quell’effimero gusto del selvaggio che riservano ancora questi posti e confidiamo che chi li frequenta abbia lo stesso nostro cuore.




sabato 16 ottobre 2021

Un weekend in Val di Daone

Una boulderata di Enrico e Franz.

Tutto inizia con la brillante idea del Franz di passare a San Vito di Cadore per recuperare i crash lasciati in montagna (perché non si sa mai). E' venerdì sera, il 15 ottobre 2021 per l'esattezza, e non abbiamo ancora organizzato nulla, al solito tutto ad cazzium: non sappiamo ancora che strada ci conviene fare, a che ora partire, dove dormiremo, ma soprattutto non abbiamo la guida dei blocchi. Quali blocchi? Ma quelli del Daone, ovviamente!

Così si parte sabato mattina presto, incagolati dal sonno, per quello che sarebbe stato (e lo è stato) un lungo viaggio. Dopo aver percorso oltre 400 Km di chiacchiere, con le orecchie sature dei roboanti assoli di chitarra di Petrucci, giungiamo a destinazione alle ore 15.00 per parcheggiare in località Nudole. Il paesaggio è incantevole, le foto che seguono parlano da sole.




Il giorno seguente decidiamo per il settore Foresta, in località la Plana, dove parcheggiamo in ampio spiazzo popolato da altri "cimber" che pare abbiano passato la notte chi in camper, chi in tenda. Da lì proseguiamo a piedi lungo la strada forestale, dove dopo poco troviamo l'ingresso del famigerato "Boulder Park". Il bosco è da fiabe, con blocchi di granito che sembrano sculture. Il fondo è comodo e si scala su tutte le difficoltà. Siamo semplicemente in estasi. Troviamo dei ragazzi che ci fanno consultare la guida, ma per noi è lo stesso, tanto andiamo a sentimento.






Piccolo bilancio del weekend. La Val di Daone è semplicemente meravigliosa, remota e isolata, e merita una visita anche soltanto per il paesaggio (per chi non ravana). Mettici che abbiamo scalato sui più bei blocchi di sempre, il granito grippa ma non è così abrasivo per la pelle (tipo Gallura in Sardegna) e c'è da scalare per tutti, brocchi compresi :)

Ci ripromettiamo di tornare prima che faccia inverno. Chi ha voglia di unirsi ci faccia un fischio!


sabato 9 ottobre 2021

Sassolungo di Cibiana, una bella cima ma... #anchemeno

Una riflessione di Enrico.

Lo scorso sabato, ho proposto a mio suocero Dario e mia cognata Angy, di tornare sul Sassolungo di Cibiana, una ravanatina cui sono particolarmente affezionato e di cui conservavo dei bei ricordi. Qualche anno prima infatti, sulla via del ritorno verso il passo, poco sopra il sentiero, avevo trovato un enorme porcino tra le radici di un abete, dove avevo sostato per una pausa di riflessione.

Il percorso, nelle guide, è descritto come di stampo alpinistico e si svolge in ambiente abbastanza isolato. Si tratta di una salita che presenta passaggi di divertente arrampicata, mai esposti di I°-II° su roccia buona, con qualche traverso su cenge detritiche.

La relazione di vienormali.it avverte che l'itinerario "richiede capacità di orientamento, piede fermo ed esperienza su percorsi rocciosi. Segnavia sbiaditi e pochi ometti, da evitare con nebbia e neve", ma è aggiornata al 2010. Nella guida "Wild Dolomiti - I percorsi più selvaggi" (Vividolomiti Edizioni, 2013), si legge invece che il percorso che sale lo spigolo N-E (che, tengo a specificare, non è la via normale) è stato "valorizzato" con bolli rossi.


Parcheggiamo l'auto poco sotto il Rifugio Re Mauro, in una piazzola erbosa sul versante zoldano, e ci incamminiamo di buona lena lungo la forestale numerata CAI 483. L'aria è frizzante e i larici cominciano a virare verso tinte tipicamente autunnali.

La strada sale dolcemente per il bosco, fino ad un bivio che conduce a Forcella Bella, direzione bivacco Campestrin. Qui incontriamo una coppia di giovanissimi, diretti alle cime degli Sfornioi (altra meritevole ravanata, di cui si parlerà in seguito), con cui intratteniamo una garbata conversazione che sfocia sempre nelle solite domande, del tipo: "ma che grado xe?".

Usciti dal bosco traversiamo le ghiaie che scendono dalla bancata sottostante la cima dello Sfornioi Nord, puntando decisamente verso il Sassolungo. Una volta raggiunta la Forcella Bella (foto di rito sul sasso aggettante poco sotto), scavalliamo sul lato opposto per intercettare, un centinaio di metri sotto, una netta traccia orizzontale che piega a sinistra. Raggiungiamo una forcelletta dove un grosso bollo, che appare riverniciato di recente, campeggia sulla parete ad indicare l'attacco della via.

Non intendo qui descrivere minuziosamente la salita, di cui si trova sul web ampia letteratura, anche per lasciare al lettore il piacere di scoprire l'itinerario da sé. Ma sto bleffando: non c'è spazio per esplorazione alcuna, perché la via è abbondantemente segnata da pennellate di minio rosso (vedi foto) che imbrattano la roccia ovunque.

Mi sento un po' come se mi avessero defraudato di un privilegio, anzi di un dritto. Vengo pervaso da un fastidioso senso di ingiustizia, che non riesco a scrollarmi di dosso per tutta la giornata.


Si sale per gradoni, cenge e brevi salti rocciosi. Lungo la via troviamo dei cordoni su chiodi e su clessidre naturali, che ipotizziamo possano servire a chi volesse attrezzare la via per salirla fuori stagione o per portarci su i "boci" alle prime armi.



Cerco qualche passaggio "adrenalinico" sulla paretina di marciumi che rimonta la larga schiena sommitale, pensando tra me e me a come doveva essere quando non c'erano sentieri, né segnavia. Quando i primi a salire erano i cacciatori e Grohmann non aveva messo ancora il suo nome su tutte le cime qui attorno. Pensieri agrodolci, che rispecchiano forse il mood stagionale.
 

Nel frattempo le nuvole si sono chiuse velocemente sopra di noi e la vista sul panorama intorno ci è in parte negata. Ma non fa niente, felicità è arrivare in cima e non vedere nulla. Si sta bene lo stesso! 
L'itineriario che seguiamo per la discesa è ben descritto dagli autori di "Wild Dolomiti", e per sfasciumi, canalini e una cengia poco esposta, attrezzata con un vecchio cordino di cui non c'è troppo da fidarsi, ci ritroviamo sulle ghiaie alla base delle rocce. Da lì il ritorno alla Forcella Bella è scontato.


Considerazioni finali.

Ricordavo la salita leggermente più ostica, sarà stata la compagnia piuttosto variopinta della prima volta, e invece nel complesso la si può descrivere come una camminata, con qualche passaggio che richiede di prestare un minimo di attenzione.

Non sono certo uno che si scandalizza se trova uno spit in più in parete (Dio benedica i chiodi a pressione), ma questa ossessione di marchiare le vie di accesso alle cime minori  - quelle che dovrebbero ancora essere selvagge -, proprio non la capisco. Gli ometti bastano e avanzano, sono eco-compatibili e se crollano d'inverno i primi apritori della stagione posso tranquillamente "metterci una pietra sopra", ripristinandone la funzionalità.

Spero proprio che molte delle belle ravanate che ho fatto in questi anni non vengano mai segnate con  indelebili segni o altro. Ma soprattutto spero che non vengano trasformate in ferrate: il cavo d'acciaio è nemico assoluto del ravanatore, il barancio il suo più fedele compagno.

E insomma, la giornata nel complesso è stata piacevole, Dario e Angela scendono comunque pienamente appagati. Nessun porcino sulla via del ritorno.

Hashtag della gita #anchemeno

venerdì 8 ottobre 2021

Pedalata gigante 2017

Un racconto di Franz.

Entusiasti dalla nostra prima piccola avventura, l’anno seguente decidiamo di ripetere l'impresa, ma con le stesse premesse: nessun allenamento e obiettivo "arriviamo dove arriviamo". 

Verso metà aprile la proposta non poteva mancare, così sento Enrico e dopo aver valutato assieme l'itinerario di massima, decidiamo di seguire alcune delle principali ciclabili venete, trentine e altoatesine. All'indomani della partenza, la domanda che mi pongo è sempre la stessa: "Quanti chilometri riusciremo a fare in totale, considerato che montiamo seriamente in bicicletta una sola volta l’anno?".




Ia TAPPA: Bassano del Grappa - Levico (70 km)

La comitiva è così formata: io, Enrico, Pippo, cui si aggiungono Andrea (quello allenato), Francesco, per tutti Checco (quello forte), e Nicola (il filosofo). Il morale è alto quando partiamo un venerdì di inizio maggio, nel primo pomeriggio, prendendo il treno da Venezia diretto a Bassano.

Una volta arrivati a destinazione, usciamo brevemente dal centro seguendo il corso del Brenta e ci incanaliamo lungo la ciclabile della Valsugana, arrivando verso sera, dopo circa 70km, in zona Levico Terme. Con qualche piccolo intoppo: la pedivella sinistra della mountain bike di Enrico si spezza senza preavviso, procurandogli un taglio sul polpaccio, per fortuna senza provocare pericolose cadute. Enrico, accompagnato dal solidale Nicola, torna quindi a Bassano per medicarsi e trovare un'officina dove farsi sostituire il blocco centrale. Ormai si è fatto tardi per loro, per cui decidono di saltare la prima tappa e raggiungerci via treno.


Il percorso della Valsugana è ben segnalato e panoramico, ideale per cicloturismo. La sera alloggiamo in un B&B a Barco, dove godiamo di un'ospitalità davvero inaspettata.



IIa TAPPA: Levico - Trento - Bolzano - Rio Pusteria (145km)

Alle prime salite Pippo spinge sui pedali e stacca il gruppo per scavallare per primo a Vigolo Vattaro, anche se un po' provato (errori giovanili!). La discesa per Trento è entusiasmante e una volta raggiunto il fondo valle ci immettiamo sulla pianeggiante ciclabile del Sole. Purtroppo il vento non ci è favorevole e per tenere un buon ritmo pedaliamo in fila, ben compatti, dandoci il turno per chi sta in testa. 

La ciclabile è piuttosto affollata e i local non sembrano molto tollerare che ci fermiamo in mezzo alla strada, per mangiare una barretta o fare pipì. Dopo l'ennesimo "pistaaaa" Nicola, il filosofo, esordisce con una delle sue frasi storiche: "La strada è di chi la usa". Massima entrata subito negli annali. 


Pranziamo a Bolzano, in piazza, seduti alla tavola di una sagra paesana (panino con salsiccia e crauti). Nel pomeriggio, con le panze piene, ci trasciniamo fino a Brixen, dove è doverosa una breve sosta e scattiamo qualche foto. Da lì in poi proseguiamo verso Fortezza, con qualche tratto di strada sterrata e non sempre agevole. Nicola è in sella ad una vecchia Cinelli e le sue ruote mal si adattano al fondo irregolare. Verso le 20:45 capitiamo in un piccolo e grazioso albergo a Rio Pusteria, dove ci fermiamo per la notte.



IIIa TAPPA: Rio Pusteria - Brunico - Dobbiamo - Cortina - Longarone (134km)

Ci svegliamo di buon mattino, la giornata è fresca e luminosa. L’umore torna alto, dopo la sfaticata del giorno precedente e l'amichevole competizione - se così si può chiamare, - aumenta. Dopo i primi 40km percorsi tutti assieme, Pippo e Nicola decidono di rallentare, così il gruppetto si divide. I restanti procedono speditamente fino a Brunico e giunti a Dobbiaco imboccano la statale per il passo Cima Banche, decidendo di evitare la ciclabile, che in alcuni tratti sterrati risulta poco praticabile.
 

A pochi chilometri dal valico scatta la classica volata. Nell'ordine di arrivo: Andrea, Checco e poco più indietro io ed Enrico, che per non esser da meno spingiamo al massimo e tagliamo assieme questa modesta (ma non per noi) tappa di montagna.



Scendendo verso Cortina, percorriamo la ciclabile delle Dolomiti, strada già salita l’anno precedente e occasione per ricordare i bei momenti trascorsi assieme. Percorriamo tutta la Cavallera e la statale lungo la Piave a ritmo costante, fino a guadagnare la meta finale di Longarone alle 7.00 di sera, giusto in tempo per agguantare l'ultimo treno.

Un'ultima domanda: ma che fine avranno fatto i due dispersi?

venerdì 1 ottobre 2021

Gusela del Padeon, le prime due volte

Un racconto di Enrico.

La Gusela del Padeon è una torre isolata che si eleva sulla verdeggiante Val Padeon, spalleggiata dalle più note cime del Pomagagnon, sottogruppo del Cristallo, a Cortina D'Ampezzo.


La Gusela del Padeon

Scopriamo questa cima sulla guida intitolata "111 Cime attorno a Cortina" (Idea Montagna), che fa da sfondo a molte delle nostre escursioni di questi ultimi anni. Dal momento che la descrizione della salita è già disponibile presso il sito VieNormali.it, questo post non vuole essere una relazione alla via, bensì il racconto di come abbiamo affrontato la Gusela a più riprese, fino ad adottarla come una delle nostre ravanate preferite di sempre.