Una riflessione di Enrico.
Il percorso, nelle guide, è descritto come di stampo alpinistico e si svolge in ambiente abbastanza isolato. Si tratta di una salita che presenta passaggi di divertente arrampicata, mai esposti di I°-II° su roccia buona, con qualche traverso su cenge detritiche.
La relazione di vienormali.it avverte che l'itinerario "richiede capacità di orientamento, piede fermo ed esperienza su percorsi rocciosi. Segnavia sbiaditi e pochi ometti, da evitare con nebbia e neve", ma è aggiornata al 2010. Nella guida "Wild Dolomiti - I percorsi più selvaggi" (Vividolomiti Edizioni, 2013), si legge invece che il percorso che sale lo spigolo N-E (che, tengo a specificare, non è la via normale) è stato "valorizzato" con bolli rossi.
Parcheggiamo l'auto poco sotto il Rifugio Re Mauro, in una piazzola erbosa sul versante zoldano, e ci incamminiamo di buona lena lungo la forestale numerata CAI 483. L'aria è frizzante e i larici cominciano a virare verso tinte tipicamente autunnali.
La strada sale dolcemente per il bosco, fino ad un bivio che conduce a Forcella Bella, direzione bivacco Campestrin. Qui incontriamo una coppia di giovanissimi, diretti alle cime degli Sfornioi (altra meritevole ravanata, di cui si parlerà in seguito), con cui intratteniamo una garbata conversazione che sfocia sempre nelle solite domande, del tipo: "ma che grado xe?".
Usciti dal bosco traversiamo le ghiaie che scendono dalla bancata sottostante la cima dello Sfornioi Nord, puntando decisamente verso il Sassolungo. Una volta raggiunta la Forcella Bella (foto di rito sul sasso aggettante poco sotto), scavalliamo sul lato opposto per intercettare, un centinaio di metri sotto, una netta traccia orizzontale che piega a sinistra. Raggiungiamo una forcelletta dove un grosso bollo, che appare riverniciato di recente, campeggia sulla parete ad indicare l'attacco della via.
Non intendo qui descrivere minuziosamente la salita, di cui si trova sul web ampia letteratura, anche per lasciare al lettore il piacere di scoprire l'itinerario da sé. Ma sto bleffando: non c'è spazio per esplorazione alcuna, perché la via è abbondantemente segnata da pennellate di minio rosso (vedi foto) che imbrattano la roccia ovunque.
Mi sento un po' come se mi avessero defraudato di un privilegio, anzi di un dritto. Vengo pervaso da un fastidioso senso di ingiustizia, che non riesco a scrollarmi di dosso per tutta la giornata.
Si sale per gradoni, cenge e brevi salti rocciosi. Lungo la via troviamo dei cordoni su chiodi e su clessidre naturali, che ipotizziamo possano servire a chi volesse attrezzare la via per salirla fuori stagione o per portarci su i "boci" alle prime armi.
Cerco qualche passaggio "adrenalinico" sulla paretina di marciumi che rimonta la larga schiena sommitale, pensando tra me e me a come doveva essere quando non c'erano sentieri, né segnavia. Quando i primi a salire erano i cacciatori e Grohmann non aveva messo ancora il suo nome su tutte le cime qui attorno. Pensieri agrodolci, che rispecchiano forse il mood stagionale.
Nel frattempo le nuvole si sono chiuse velocemente sopra di noi e la vista sul panorama intorno ci è in parte negata. Ma non fa niente, felicità è arrivare in cima e non vedere nulla. Si sta bene lo stesso!
L'itineriario che seguiamo per la discesa è ben descritto dagli autori di "Wild Dolomiti", e per sfasciumi, canalini e una cengia poco esposta, attrezzata con un vecchio cordino di cui non c'è troppo da fidarsi, ci ritroviamo sulle ghiaie alla base delle rocce. Da lì il ritorno alla Forcella Bella è scontato.
Considerazioni finali.
Ricordavo la salita leggermente più ostica, sarà stata la compagnia piuttosto variopinta della prima volta, e invece nel complesso la si può descrivere come una camminata, con qualche passaggio che richiede di prestare un minimo di attenzione.
Non sono certo uno che si scandalizza se trova uno spit in più in parete (Dio benedica i chiodi a pressione), ma questa ossessione di marchiare le vie di accesso alle cime minori - quelle che dovrebbero ancora essere selvagge -, proprio non la capisco. Gli ometti bastano e avanzano, sono eco-compatibili e se crollano d'inverno i primi apritori della stagione posso tranquillamente "metterci una pietra sopra", ripristinandone la funzionalità.
Spero proprio che molte delle belle ravanate che ho fatto in questi anni non vengano mai segnate con indelebili segni o altro. Ma soprattutto spero che non vengano trasformate in ferrate: il cavo d'acciaio è nemico assoluto del ravanatore, il barancio il suo più fedele compagno.
E insomma, la giornata nel complesso è stata piacevole, Dario e Angela scendono comunque pienamente appagati. Nessun porcino sulla via del ritorno.
Hashtag della gita #anchemeno
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