Una ravanata (inaspettata) di Enrico & Pippo.
È il 25 settembre 2021, sono le quattro del pomeriggio e ci siamo appena svegliati da una salubre pennichella, distesi sul pratino alle spalle del rifugio San Marco, San Vito di Cadore.
La butto là: facciamo una sgambata alla forcella Grande? Pippo scatta in piedi e, in due e due quattro, ci ritroviamo sul sentiero che traversa la frana che scende dalla base del Torrione Giou Scuro ed altri avancorpi della Cima Belprà. Ed è proprio qui che guardando distrattamente verso l’alto la nostra attenzione viene catturata da un fugace bagliore. Che sarà? Andiamo a vedere?
La balzana idea è di salire sulla cima destra, di quella che avremmo scoperto poi essere la torre Alba Maria, per balze e gradoni di roccia, ma si tratta di una improvvisata, per cui siamo ancora nel campo dell’ipotetico.
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La torre, vista dal rifugio Scotter |
Presto detto, ci ritroviamo a rimontare le ghiaie con esercizi di equilibrismo, seguendo una flebile traccia che si snoda tra i baranci. Rimontiamo qualche masso e costeggiamo ora più facilmente la parete di sinistra. Mentre Pippo rimane poco indietro per un’improvvisa “chiamata alle armi”, fantastico sull’idea di salire il grigio calcare che si fa incombente sulle nostre teste. Ma qualcuno ci ha già preceduto nei fatti: una fila di spit ravvicinarti sale in verticale andando a finire chissà dove. Con entusiasmo informo Pippo della scoperta, ma non avendo alcuna attrezzatura ci resta poco da fare, se non starcene coi nasi all’insù ad immaginare un possibile prosieguo della via.
Camminiamo ora verso il fondo del canalone che separa le due cime ignote, convinti di poter trovare il modo di risalirlo, fino a quando incappiamo in qualcosa che mai ci saremmo aspettati. Una corda penzola dalla parete di destra, perdendosi tra i mughi una trentina di metri sopra. Dritto, davanti a noi, il canalone sembra comunque praticabile, ma quella corda esercita un richiamo irresistibile. Ci avviciniamo circospetti, ne valutiamo lo stato, proviamo a dare qualche strattone, sembra reggere. La scelta è presa, con la prudenza di non appenderci, ma di arrampicare tenendola, per così dire, a portata di mano...
I primi passaggi non sono affatto banali, la roccia è delicata e presto ci troviamo un po’ di aria sotto il sedere. Valutata nel complesso la difficoltà non superiore al I°-II°, con qualche passaggio di III°, decidiamo comunque di proseguire. Scopriamo poi che lo spezzone di corda è ancorato ad un chiodo e quello successivo ad alcune radici. Sembra un lavoro fatto bene, per cui decidiamo di fidarci, ovunque ci porterà.
Giungiamo ad un terrazzo alla base di una cengia inclinata che volge a destra, per renderci conto che si sarebbe comunque potuta evitare la parete risalendo il canalone abbandonato più sotto, che qui però diventa in ogni caso impraticabile. Con un po’ di apprensione risaliamo la rampa, che si fa mano mano più esposta, fino a raggiungerne il culmine. Da lì, oltre un piccolo salto in discesa, parte un nuovo spezzone di corda assicurata dai nostri predecessori. Ci serviamo ora della stessa a mo’ di mancorrente lungo una cengia terrosa, meno esposta di quanto temessimo, grazie alla presenza della vegetazione sottostante. La cengia termina alla base di un canalino terroso dove la corda compie una rapida svolta verso l’alto. Lo risaliamo aggrappandoci ai mughi fino alla sua sommità.
Gli indizi terminano con le corde fisse e nessun ometto indica ora dove proseguire. Decidiamo quindi di risalire la cresta erbosa che strapiomba sui ghiaioni sottostanti la Cima Belprà, fin sotto la rocca finale della torre, che ci appare inespugnabile e marcia. Decidiamo quindi di costeggiare i ripidi prati ora in direzione sinistra, faccia a monte, nella convinzione di trovare il modo di vincere la cima salendola da dietro, per via facile.
Camminiamo su loppe erbose, cercando di memorizzare il percorso da compiere a ritroso e superando diversi canali pericolosamente simili al nostro, ma che sembrano poi saltare nel vuoto. Traversata qualche lingua di ghiaia mobile che scende dalla rocca, puntiamo a rimontare la spalla della torre, le cui retrovie sembrano seguire l’andamento dell’orografia delle cime attorno. Poco più in là individuiamo finalmente un impluvio con massi incastrati, che appare friabile, ma praticabile. Una volta sopra tornare indietro non sarà così scontato, ma decidiamo di provarci ugualmente.
Superato anche questo ostacolo ci appare ormai chiaro che la nostra intuizione era corretta e gli animi si rinfrancano. Procediamo ora per sfasciumi, fino a raggiungere una forcella dalla quale la vista precipita sul canalone che ci divide dalla più alta Cima Belprà. Che sia possibile arrivare qui anche da quel versante? Da qui in avanti il piano inclinato ci permette di camminare fino a raggiungere la placca finale, massimo I°+. Giunti in cresta, col cuore in gola e il rifugio San Marco sotto i piedi, traversiamo a a sinistra con fortissima esposizione, tenendoci su rocce marce, fino a toccare la vera cima, separata da un labile intaglio.
Scopriamo così che quel bagliore che ci aveva attratto a sé fin da principio, altro non è che un piccolo specchietto, incastonato nella roccia da chissà quale mano. Inutile descrivere la nostra piccola felicità, la vista sull’Antelao è da qui magnifica anche se l’altezza del nostro belvedere è modesta. Alle nostre spalle altre torri, altri canali inesplorati che sembrano poter portarci ancora più su.. chissà, forse c’è un modo per attraversare quel labirinto e poter raggiungere il Torrione del Giou Scuro e quindi Forcella Grande? Ma sono solo fantasie, è tardi e il sole sta già tramontando, l’accorciarsi delle giornate ci costringe ad una rapida ritirata, senza tralasciare che la discesa si preannuncia impegnativa.
Con qualche peripezia torniamo ai prati inclinati e, in senso inverso, ripercorriamo fedelmente il percorso seguito all’andata, sempre attenti a non perdere l’orientamento, fino a raggiungere la cresta aerea e discendere quindi il canalino erboso. Una volta depositati sulla cengia, risaliamo il muretto e con un balzo siamo sulla prima cengia inclinata. Da lì, pur prospettandosi l’opportunità di raggiungere poco più sotto il fondo del canale principale e scendere a piedi, decidiamo di calarci per la parete iniziale, questa volta appendendoci alla corda. Quando posiamo i piedi a terra siamo ancora su di giri per l’adrenalina.
Al rifugio, interpelliamo subito Edy per chiedere se sia stato lui ad attrezzare la via. Lui risponde che ha attrezzato in giro qualche monotiro, ma che no, non è stato lui bensì il Soccorso alpino di San Vito di Cadore, in occasione della cerimonia di commemorazione dei compagni caduti durante la sfortunatamente nota operazione di soccorso sul Monte Pelmo, era il 2011.
Impressionati dalla rivelazione, quel pezzo di specchio posto sulla cima assume un significato ben più profondo di quanto immaginassimo. Ce ne torniamo a valle in silenzio, persi ognuno nei propri pensieri. Chissà se quelle corde le ritroveremo anche l’anno prossimo, e in tal caso, se ci si potrà ancora fidare.
Segue il racconto fotografico della ravanata.
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La frana iniziale e il rifugio San Marco sullo sfondo
| La paretina spittata
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Il restringimento del canalone |
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Una corda penzola dalla parete di destra |
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Salendo la parete
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Ancoraggi |
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Sulla parete
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Sul terrazzo, sopra la parete |
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La cengia inclinata
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Un'altra corda prosegue tra i mughi |
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Pippo risale il canalino terroso |
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Dal culmine del canalino |
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Pippo su loppe |
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Ancora Pippo su loppe |
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L'impluvio friabile |
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La cima vista da dietro |
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Vista sul Pelmo |
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Sulla forcella prima della vetta |
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Felicità |
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Vista sulla Forcella Piccola |
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Discesa alternativa all'infido impluvio |
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Il Giou Scuro e in secondo piano Punta Taiola |
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Le rocce marce sommitali |
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In discesa sulla prima parete |
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