Notazioni doverose sul sentirsi inadeguati, e una possibile via d'uscita.
Siamo da poco tornati da un weekend al Melloblocco, dove abbiamo trascorso qualche giorno in valle, a prendere il sole tra sassi e birrette, ma soprattutto a produrre ghisa. Ma non è andata proprio come speravamo...
Siccome il sole è dirompente, una vera rarità considerato che la Val Masino è soprannominata il pisciatoio d'Italia, si decide di scalare quando il caldo risulta meno opprimente e i blocchi cominciano ad essere "agibili", vista l'alta concentrazione di climber per metro quadro di roccia. Del resto si dice che non si va al Mello per scalare, ma per fare festa. Infatti la prima sera, dopo aver bazzicato nel pomeriggio in zona Zocca Superiore, siamo già aggrappati alle nostre bibite nella calda atmosfera di San Martino, il cuore pulsante della manifestazione, dove partecipiamo allo struscio collettivo, girellando tra stand e localini che mettono musica a palla, davanti ai quali si radunano numerosi capannelli di allegri sassisti.
Lì ci diamo appuntamento con i ragazzi del GAM, la palestra dove ci alleniamo in settimana, con cui si parla dei blocchi che abbiamo stampato, ma soprattutto di quelli che abbiamo provato. Che poi si finisce a dire sempre le stesse cose, tipo che un grado era troppo stretto mentre quell'altro era troppo lasco, eccetera. Poi incontriamo altra gente che abbiamo conosciuto in giro, con cui iniziamo a parlare delle edizioni precedenti del raduno, facendo improbabili confronti tra il nuovo e il vecchio, ma tutti d'accordo su quanto è bello scalare in Daone, che in gradi in Sardegna sono duri, che il granito è meglio del calcare e altre simili amenità. Tutti con gran trasporto nell'esprimere il proprio pensiero, perché questa IPA artigianale va giù che è un piacere ed essere qui è molto bello.
E quindi mi ritrovo con un tizio a parlare di nuove aree boulder da esplorare, quando a un certo punto comincio a sentirmi a disagio nel mantenere la conversazione. Perché provo un filino di fastidio quando mi chiede se ho provato una certa linea, "perché quel blocco" - dice mimando i movimenti per risolverlo - "è una figata". Il fatto è che se il tuo obiettivo è portare a casa un 6b pulito, sul 7b nemmeno ti ci metti, per te è una chimera, un miraggio. L'entusiasta interlocutore, al contrario, suppone che tu il 7b lo debba quantomeno provare, visto che gli stai raccontando che quasi tutti i weekend sei in giro a scalare. Il tizio non ti sta sottovalutando affatto, anzi in cuor suo appare sinceramente felice di confrontarsi con te su come affrontare quel sasso che tu hai solo visto provare da altri. Perché sai bene che il tuo culo è un macigno e nelle braccia hai un grado in meno, che è un mondo intero, per chi non lo sapesse...
Il problema, evidentemente, è tutto mio. Nella mia mente vagamente annebbiata dal grado alcolico (almeno su quello mi muovo discretamente bene) si forma a lettere cubitali il seguente pensiero: IMPOSTORE, sono un IMPOSTORE. Sì, è pur vero che mi alleno in palestra, sì è vero che scalo, sì è vero che amo questa cosa di fare blocchi, ma sono scarso, sono una schiappa. Per fare blocchi devi avere un grado decente, altrimenti puoi provare solo scogli muschiati e chissà perché i tiri duri sono sempre quelli più belli, a detta di tutti...
Il mio senso di autostima è sotto i piedi quando mi defilo con la scusa di andare a prendere un'altra birra. Le conseguenze di questa micro crisi esistenziale sono ovvie: il giorno seguente sono scazzato, non ho voglia di fare nulla e aspetto che non ci sia quasi nessuno per provare una linea. Intorno a me è la fiera dei palestrati, tutti che tirano come dannati, con gli addominali segnati e la spocchia di chi ha vent'anni, perché a quell'età hai la cazzimma e ti senti invincibile. Buon per loro.
Alla fine della giornata riesco a portare a casa il mio 6b, facile a detta di tutti, praticamente regalato. E vabbè, è andata così. L'impostore ha colpito ancora. Mi consolo davanti ad una caraffa di vino e goulash di cervo al Rifugio Gatto Rosso (consigliato) e l'indomani mi risveglio con un dolore micidiale alla spalla. Ho tirato troppo e adesso non riesco nemmeno ad alzare il braccio per salutare le montagne.
Eppure questa breve e triste storia ha una sua morale. Dopo aver elaborato queste piccole grandi delusioni, mi sono fatto persuaso che è proprio nei miei fallimenti che, alla fine dei conti, trovo la voglia di continuare. Nella scalata così come nella vita di tutti i giorni, una forma di resilienza auto-appresa fin da bambino che suona più o meno così: FAIL BETTER.
Se ci pensate bene il concetto di fallire può essere visto da diverse prospettive e ha implicazioni significative, sia sul piano fisico che mentale. Non sono di certo il primo a dirlo, ma il fallimento è parte del processo di apprendimento: analizzare i propri errori e perseverare, nonostante le difficoltà, è un modo per migliorarsi. Secondo una prospettiva diversa, in un certo senso, il fallimento può anche essere visto come una misura del proprio successo: più fallisco e più significa che sto progredendo, perché sto lavorando su una linea che è al di là delle mie capacità e mi spingo oltre la mia zona comfort. E quindi se provo cento volte lo stesso movimento, mi sto allenando di più di chi chiude al primo tentativo.
Fallire è inevitabile e il bello dell'arrampicata non sta solo nel raggiungere la cima di un blocco, ma nell'esperienza stessa che facciamo mentre scaliamo. Imparare a fallire è dunque fondamentale, come potersene fregare di cosa pensano gli altri. Ecco queste due semplici ricette della felicità andrebbero tatuate sul cuore, nel frattempo cercherò di tenerle a mente ogni volta che inizierò a provare un blocco e cadrò - sicuramente - al primo movimento.
Ciao Melloblocco, grazie per tutta la ghisa e per il tuo 6b regalato (vedi foto).
P.S. Questo post è ispirato dalla lettura dell'ottimo saggio di Amedeo Cavalleri Abituati a cadere, De Agostini editore, che con grande lucidità e profondo intimismo affronta il tema del fallimento nell'arrampicata, così come nella vita.